14 agosto: festa di S. Massimiliano Kolbe

Siamo di fronte a un volto luminoso, davanti al quale tutti, anche i non credenti, si inchinano volentieri e di cui tutti parlano con venerazione; S. Massimiliano Kolbe. Il fatto che egli abbia offerto la sua vita ad Auschwitz, riscattando con la sua carità e il suo martirio la dignità dell’uomo oppresso, basta ad attirargli tutte le simpatie.
Ma noi vogliamo piuttosto imparare a comprendere quel suo gesto così decisivo sullo sfondo di tutta la sua esistenza: la sua vocazione, gli ideali coltivati, l’infaticabile operosità, la “ostinata” missionarietà, perfino ciò che a qualcuno potrebbe sembrare “eccessivamente integrista”, e che esprime invece la integralità della sua fede. Per non correre il rischio di staccare artificialmente la sua morte dalla sua vita.

Ad Auschwitz diventa il n. 16670. Comincia tirando carri di ghiaia e di sassi per la costruzione di un muro del crematorio. A lui, perché prete toccava un peso due o tre volte superiore. Lo vedono sanguinare e barcollare. Non vuole che gli altri si espongano per lui: ”Non vi esponete a ricevere colpi per me. L’immacolata mi aiuterà, farò da solo“.”

Nascita e vocazione

P. Massimiliano Kolbe fu figlio del suo tempo e della sua terra: nacque nel 1894 in un paesino polacco, da genitori che gestivano un piccolo laboratorio di tessitura. Morì a 47 anni, il 14 agosto 1941 ad Auschwitz. Era entrato nel seminario dei Frati Francescani Minori Conventuali  nel 1907, a tredici anni; novizio a 16 anni (1910). Dal 1912 al 1919 studia filosofia e teologia a Roma. Laurea in filosofia nel 1915 e laurea in teologia nel 1919. Si interessa di fisica e di matematica e giunge fino a progettare nuovi tipi di aerei ed altre apparecchiature.

L’immacolata e la Milizia

Il giovane Massimiliano ha una concezione cavalleresca della vita, al modo degli antichi cavalieri medioevali: ma la sua dama è la Madonna. Si convince che è iniziata “l’Era dell’immacolata” quella in cui Maria dovrà, come dice la Genesi, schiacciare la testa del serpente. Scrive: “Bisogna seminare questa verità nel cuore di tutti gli uomini che vivono e vivranno fino alla fine dei tempi e curarne l’incremento ed i frutti di santificazione; bisogna introdurre l’Immacolata nei cuori degli uomini affinché Ella innalzi in essi il trono del Figlio suo e li trascini alla conoscenza di Lui e li infiammi d’amore verso il Sacratissimo Cuore di Gesù”.

Da parte sua ha una devozione totale e gentile: chiama la Madonna con i nomi più teneri e familiari, come solo i polacchi sanno fare, profondamente convinto che i cristiani devono diventare “cavalieri dell’Immacolata“, e fonda una associazione. È la “Milizia dell’immacolata” di cui abbiamo gli statuti autografi.

La Città dell’Immacolata

Nel 1927 inizia a costruire dal nulla un’intera città a circa 40 km da Varsavia. Lui ne parla come di una futura seconda Varsavia. Chiama la città “Niepokalanow”: città dell’Immacolata. In pochi anni ecco descritta la prima realizzazione: “Una vasta area libera per la costruzione di una grande basilica dell’immacolata… Un complesso-editoria (che comprendeva): la redazione, la biblioteca, la tipoteca, il laboratorio dei linotipisti, la zincografia con i gabinetti fotografici, le tipografie…, ed ancora i vari reparti della legatoria, dei depositi e delle spedizioni. L’ala sinistra… comprendeva, in fabbricati distinti, la cappella, l’abitazione dei religiosi, il postulandato, il noviziato, la direzione generale, l’infermeria e, alquanto distanziata, la grande centrale elettrica. E poi, sparsi un po’ dovunque, le officine dei fabbri e dei meccanici, i laboratori per i falegnami, per i calzolai, per i sarti, nonché le grandi rimesse per i muratori e il corpo dei pompieri. Ma non è ancora finito: c’erano il parco macchine, la piccola stazione ferroviaria con il binario di raccordo con quella pubblica e statale; previsto anche l’aeroporto con quattro velivoli e un progetto di stazione radio trasmittente. Dovunque grossi tronchi d’albero, depositi di legname, tubi e materiale edilizio di vario genere”.

La capacità di Massimiliano Kolbe di trascinare gli altri dietro questo suo ideale cavalleresco è data da queste cifre: dopo una decina di anni o poco più a Niepokalanow vivono 762 religiosi: 13 sacerdoti, 18 chierici, 527 religiosi conversi, 122 giovani aspiranti sacerdoti, 82 giovani aspiranti religiosi conversi. Quando Massimiliano Kolbe, tornando sacerdote da Roma, aveva rimesso piede in Polonia la Provincia francescana contava poco più di un centinaio di religiosi. I religiosi di Niepokalanow devono essere poverissimi ma avere a disposizione quanto di meglio c’è sul mercato: dall’aereo alle rotative ultimo modello.

I frati di Massimiliano sono capaci di tutto: dall’organizzare il corpo dei pompieri a prendere il brevetto di pilota, a studiare per diventare direttore d’orchestra in modo da poter curare personalmente la registrazione di dischi, a imparare i sistemi di regia cinematografica. In questa nuova “città” sì stampano otto riviste per parecchie centinaia di migliaia di copie. (La maggiore tra esse, “Il cavaliere dell’Immacolata“, tocca in quegli anni il milione di copie. P. Massimiliano prevede traduzioni in italiano, inglese, francese, spagnolo e latino). Lui vi abiterà pochissimi anni.

Già nel 1930 è in Giappone dove fonda dal nulla una città analoga e la chiama “Il giardino dell’immacolata “. E durante l’edificazione della filiale giapponese “dormiva in una soffitta coprendosi col cappotto“. La sua Milizia dell’Immacolata, nel 1939, contava 800.000 iscritti. “Noi, diceva P. Kolbe, abbracceremo il mondo intero” e aveva piani che riguardavano l’India e il mondo arabo. Nel 1932, quando costruiva Niepokalanow decise che fosse piccolo un solo ambiente: il cimitero, perché diceva: ” prevedo che le ossa dei miei frati saranno disperse in tutto il mondo“. “Bisogna inondare la terra con un diluvio di stampa cristiana e mariana, in ogni lingua, in ogni luogo, per affogare nei gorghi della verità ogni manifestazione di errore che ha trovato nella stampa la più potente alleata; fasciare il mondo di carta scritta con parole dì vita per ridare al mondo la gioia di vivere“.

Il nazismo

Questo fu l’uomo su cui si abbatté la furia nazista. Sapeva ciò che gli aspettava. Aveva tanti amici che lo avvertivano di tutto. La Gestapo gli fece sapere addirittura che avrebbe gradito una sua opzione per la cittadinanza germanica se si fosse iscritto nella lista degli oriundi tedeschi, dato il suo cognome e le sue origini (nonostante che il cognome della madre fosse evidentissimamente polacco).

Fu arrestato una prima volta assieme ad alcuni suoi frati. Li confortava con queste parole: “coraggio, andiamo in missione“. In un primo tempo la Città dell’Immacolata fu adibita a ospedale con un ufficio della Croce Rossa. Pian piano si riempiva di rifugiati e di scampati, accolse 2000 espulsi dalla Polonia e alcune centinaia di ebrei. I tedeschi cominciarono a considerarla come un campo di concentramento. Liberato una prima volta, P. Kolbe riorganizzò la città per la sopravvivenza di tutti i rifugiati organizzando infermeria farmacia, ospedale, cucine, panetteria, orto e altri laboratori.

Auschwitz: il martirio per amore

Il 17 febbraio 1941 viene arrestato per la seconda volta. Dice: “Vado a servire l’immacolata in un altro campo di lavoro“. Il nuovo campo di lavoro è quello di Auschwitz. Tutta l’energia di questo uomo fisicamente fragilissimo (malato di tisi, con un solo polmone) è ora messa a confronto con la sofferenza più atroce. Una sofferenza che lo colpisce sistematicamente, come gli altri e più degli altri, perché appartiene al gruppo dei preti, quello che per odio e maltrattamenti è accomunato agli ebrei.

Diventa il n. 16670. Comincia tirando carri di ghiaia e di sassi per la costruzione di un muro del crematorio: un carro che doveva essere tirato sempre correndo. Ogni dieci metri una guardia con un bastone garantisce la persistenza del ritmo. Poi a tagliare e trasportare tronchi d’albero. A lui, perché prete, toccava un peso due o tre volte superiore a quello dei suoi compagni. Lo vedono sanguinare e barcollare. Non vuole che gli altri si espongano per lui. “Non vi esponete a ricevere colpi per me. L’immacolata mi aiuterà, farò da solo”. Quando lo vogliono portare all’ospedale del campo, se ne ha la forza, indica sempre qualcun altro che, a suo parere, ha più bisogno di lui: “io posso aspettare. Piuttosto quello lì…“. Quando lo mettono a trasportare cadaveri, spesso orrendamente mutilati, e ad accatastarli per l’incenerimento, lo sentono mormorare pian piano: “Santa Maria prega per noi” e poi: “Et Verbum caro factum est” (Il Verbo si è fatto carne).
Nelle baracche qualcuno la notte striscia verso di lui in preda all’orrore e si sente dire lentamente, pacatamente, come un balsamo:

L’odio non è forza creativa; solo l’amore è forza creativa”.

Oppure parla dell’immacolata: “Ella è la vera consolatrice degli afflitti. Ascolta tutti, ascolta tutti!”. Gli ammalati lo chiamano: “il nostro piccolo padre”.

Poi venne quel giorno in cui un detenuto del blocco 14 riuscì a Fuggire. Padre Kolbe era stato assegnato a quel blocco solo da pochi giorni. Per tre ore tutti i blocchi vennero tenuti sull’attenti. Alle 9, per la misera cena, le file vengono rotte. Il blocco 14 dovette stare immobile mentre il loro cibo veniva versato in un canale. Il giorno dopo, il blocco rimase tutto il giorno allineato immobile, sulla piazza: guardati, percossi, digiuni, sotto il sole di luglio: distrutti dalla fame, dal caldo, dall’immobilità, dall’attesa terribile. Chi cadeva veniva gettato in un mucchio ai bordi del campo. Quando gli altri blocchi tornarono dal lavoro si procedette alla decimazione: per un prigioniero fuggito dieci condannati a morte nel bunker della fame. Un condannato al pensiero della moglie e dei figli grida.

A un tratto il miracolo. P. Massimiliano esce dalla fila, si offre in cambio di quell’uomo che nemmeno conosce. Lo scambio viene accettato. Il miracolo per intercessione di P. Kolbe, Dio lo compie in quell’istante. Dobbiamo veramente ricostruire ciò che avvenne. Non molti poterono udire. Ma tutti ricordano un particolare… Kolbe uscì dalla fila e si diresse diritto, “a passo svelto” verso il Lagerfuehrer Fritsch, allibito che un prigioniero osasse tanto. Per il Lagerfuehrer Fritsch i prigionieri erano solo dei numeri. P. Kolbe lo costrinse a ricordare che erano uomini, che avevano una identità. “Che cosa vuole questo sporco polacco?”. “Sono un sacerdote cattolico. Sono anziano (aveva 47 anni). Voglio prendere il suo posto perché lui ha moglie e figli”.

La cosa più incredibile, il primo miracolo di Kolbe e attraverso Kolbe fu il fatto che il sacrificio venisse accettato. Lo scambio, con la sua affermazione di scelta e di libertà e di solidarietà, era tutto ciò contro cui il campo di concentramento era costruito. Il campo di concentramento doveva essere la dimostrazione che “l’etica della fratellanza umana” era solo vigliaccheria. Che la vera etica era la razza, e le razze inferiori non erano “umane”. Il principio umanitario secondo l’ideologia nazista era una menzogna giudeo-cristiana. Nel campo di concentramento si dimostrava che l’umano è ciò che di più esterno c’è nell’uomo, una maschera che può essere levata a volontà. “I campi di concentramento costituivano un frammento del dibattito filosofico definitivo (Szczepanski)”.

Che Fritsch accogliesse il sacrificio di Kolbe e soprattutto accogliesse lo scambio (avrebbe dovuto almeno decidere la morte di ambedue) e quindi il valore e l’efficacia del dono, fu qualcosa di incredibile. Era infatti un gesto che dava valore umano al morire, che rendeva il morire non più soggezione alla forza, ma offerta volontaria. Per Fritsch o fu un lampo di novità o fu la totale cecità di chi non credeva più che quella gente avesse alcun significato storico. Di fatto non c’era nessuna speranza umana che quel gesto oltrepassasse i confini del campo di concentramento. Né P. Kolbe poteva umanamente pensare a una qualsiasi eco storica del suo gesto. Ma P. Kolbe riuscì a dimostrare fisicamente che quel campo era un Calvario. E non ci si riferisce qui a una immagine simbolica. Ci si riferisce a una Messa. Da quel giorno, da quella accettazione, il campo possedette un luogo sacro. Nel blocco della morte i condannati vennero gettati nudi, al buio, in attesa di morire per fame. Non venne dato loro più nulla, nemmeno una goccia d’acqua. La lunga agonia era scandita dalle preghiere e dagli inni sacri che P. Kolbe recitava ad alta voce. E dalle celle vicine gli altri condannati gli rispondevano.

L’eco di quel pregare penetrava attraverso i muri, di giorno in giorno sempre più debole, trasformandosi in sussurro, spegnendosi insieme al respiro umano. Il campo tendeva l’orecchio a quelle preghiere. Ogni giorno la notizia che pregavano ancora faceva il giro delle baracche. L’intorpidito tessuto della solidarietà umana ricominciava a pulsare di vita. La morte che lentamente veniva consumata nei sotterranei del tredicesimo blocco non era la morte di vermi schiacciati nel fango. Era un dramma e rito. Era sacrificio di purificazione” (Szczepanski).

La fama di ciò che avveniva si sparse anche negli altri campi di concentramento. Ogni mattina il bunker della fame veniva ispezionato. Quando le celle si aprivano quegli infelici piangevano e chiedevano del pane; chi si avvicinava veniva colpito e ributtato violentemente sul cemento. P. Kolbe non chiedeva nulla, non si lamentava, restava in fondo seduto, appoggiato alla parete. Gli stessi soldati lo guardavano con rispetto. Poi i condannati cominciarono a morire; dopo due settimane erano vivi solamente in quattro con P. Kolbe. Per costringerli a morire, il 14 agosto, venne fatta loro una iniezione di acido fenico al braccio sinistro. Era la vigilia di una delle feste mariane che Massimiliano amava di più: l’Assunta, a cui cantava sempre volentieri quella lauda popolare che dice: “Andrò a vederla, un dì!“.
Quando aprii la porta di ferro, è il suo carceriere che racconta, non viveva più; ma mi si presentava come se fosse vivo. Ancora appoggiato al muro. La faccia era raggiante in modo insolito. Gli occhi largamente aperti e concentrati in un punto. Tutta la figura come in estasi. Non lo dimenticherò mai “.

Canonizzazione

P. Kolbe ha dimostrato, in forza della sua fede, che l’uomo può creare abissi di dolore, ma non può evitare che essi siano inabitati dal Crocifisso e dal mistero del Suo amore sofferente, che si riattualizza, che autonomamente e con forza inarrestabile decide di farsi “presente”. P. Kolbe definiva la fede con una nettezza impressionante, e con altrettanta decisione la propagandava e la voleva incarnare in tutti gli spazi della vita culturale e sociale; e seppe avere tanta carità da essere il primo “martire della carità“. Proprio con questo titolo, mai utilizzato prima, è stato canonizzato da Giovanni Paolo lI.